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La consegna

Da un paio d’anni ho ricominciato ad andare in bici: il motivo era tenere le gambe allenate in previsione delle uscite invernali. Con l’uso settimanale, però, la cosa ha assunto una forma a sé stante: ne è nata una passione vera e propria, indipendente da quella per la montagna e per la moto. Negli ultimi mesi è praticamente diventata mezzo di trasporto cittadino e la uso per recarmi al lavoro (24 km tra andata e ritorno) una o due volte la settimana. Questa nuova situazione mi ha ispirato la scrittura di un racconto breve che ha per protagonista un ciclocorriere o bike messenger. L’ azione si svolge nel prossimo futuro, in una città che alcuni non faticheranno troppo a riconoscere se leggeranno il libro, il tutto avvolto da un’ atmosfera alla “blade runner” (come ho descritto sul retro della copertina).

Tengo a precisare che il mio intento non è quello di lucro: ogni euro di guadagno (cioè l’unico euro di ricarico su ogni copia), sarà devoluto in beneficienza per l’acquisto di una bicicletta (anche usata) destinata a bambini poveri. Credo fermamente di fare tutto quello che posso affinché il germe della bicicletta attecchisca nelle nuove leve, e che quindi si possa trasformare lentamente ma inesorabilmente il volto delle nostre città, oggi così disumanizzate per via dell’ abuso di mezzi tecnologici (automobile in primis).

La consegna

http://www.lulu.com/product/a-copertina-morbida/la-consegna/15834042

Basta per favore !

Comincio dalla fine, dalla frase che dovrebbe essere la risposta più adatta a chi pensa di risollevarsi violentando l’ultimo lembo di wilderness presente nel Centro Italia.

Ecco la notizia ufficiale (fonte: “Il Centro” http://ilcentro.gelocal.it/laquila/cronaca/2011/02/17/news/l-aquila-il-piano-di-sviluppo-oltre-la-ricostruzione-unite-le-stazioni-sciistiche-di-ovindoli-e-campofelice-3467366 )

“Firmato a palazzo Chigi il protocollo per rilanciare le aree colpite dal terremoto. Tutto nasce da un’idea dei sindaci dell’Aquilano. Come anticipato dal Centro, previsto un investimento per unire i comprensori sciistici di Campofelice e Ovnidoli”

Quindi cominciamo col dire che l’idea di sfruttare ulteriormente la montagna viene dagli amministratori locali, ma entriamo nel cuore della notizia:

” L’Aquila va oltre la ricostruzione e pensa a un piano di sviluppo. I sindaci del cratere e le istituzioni a ogni livello (dal governo nazionale a quello regionale) prendono atto che ricostruire una città-territorio come il capoluogo di Regione non significa rifare solo le case ma è invece necessario volare un po’ più alto e mettere in atto una serie di azioni concrete che ridìano, soprattutto ai più giovani, una speranza nel futuro.

Oggi a Roma è stato firmato il protocollo d’intesa che punta al “rilancio dello sviluppo e alla valorizzazione dell’area aquilana del cratere colpita dal terremoto del 6 aprile 2009, ai fini ambientali e turistici”. Il protocoll è stato siglato  a Palazzo Chigi dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, dal Presidente della regione Abruzzo Chiodi, dalla provincia dell’Aquila, dai comuni e dagli enti parco interessati.

Tra le iniziative, come annunciato dal Centro, il rilancio delle infrastrutture, in particolare quelle sciistiche. Tra queste quella di creare un’unica grande stazione sciistica collegando i comprensori di Campofelice ed Ovindoli. Se dovesse essere realizzata sarà la più grande stazione sciistica del sud Europa.

Secondo quanto emerso per la creazione dei nuovi impianti sciistici a Campofelice, Ovindoli e Campo Imperatore verranno investiti 70 milioni di euro, di cui 30 già nel 2011. Gran parte dei finanziamenti verranno dagli imprenditori privati. Il progetto prevede uno ski dome (una pista da sci al coperto) e tre campi da golf.

Ecco, uno skidome e tre campi da golf: se non è Luna Park questo…

Andiamo avanti:

“L’obiettivo è collegare Ovindoli e Campofelice”, spiega il sindaco dell’Aquila Cialente, “ed anche ampliare Campo Imperatore creando 63 chilometri di piste. Bisogna portare un minimo di infrastrutture in un territorio non antropizzato per chilometri e chilometri. Saranno investimenti con un grande ritorno”. “La firma di oggi è importante”, aggiunge Gianni Letta, “perché crea una visione di insieme per l’Abruzzo”.

Quindi mi chiedo, Ovindoli e Campo Felice a parte che occupano già una zona paesaggisticamente bellissima, come e perché realizzare 63 km di piste a Campo Imperatore derogando al fatto che il Gran Sasso è dichiarato parco ? Possiamo quindi dire addìo al Piccolo Tibet perché per realizzare 63 km di piste si dovrà necessariamente andare ad intaccare una zona “antropicamente poco o nulla abitata”, come se fosse uno spreco di risorse avere un pezzo di territorio incontaminato e pressoché libero dalla presenza umana.

Invece di investire 70 miliori in euro per nuovi impianti non sarebbe meglio investire per far conoscere alla gente modi alternativi di fruire della montagna invernale ? Perché non trarre profitto dall’escursionismo, sci o ciaspole che siano ? Perché sempre i soliti impianti che diventeranno l’ennesima discarica di ferraglia arrugginita abbandonata a sé stessa ? Con il riscaldamento globale avremmo sempre meno giorni di neve in appennino, ma a questo non ci si pensa. Gli investimenti oculati, lungimiranti, a lungo termine non sono contemplati da amministratori locali che rimangono in carica si e no per qualche anno. Basta fare profitti facili e subito, poco importa se ai nostri figli e nipoti lasceremo il deserto dei tartari.

Ebbene, basta così.

“Cominciò così per il giovane filosofo, una vera iniziazione al metodo dell’adorazione esicastica. La prima indicazione che gli venne data concerneva la stabilità. Un buon abbarbicamento al suolo. Effettivamente, il primo consiglio da darsi a chi vuole meditare, non è di ordine spirituale ma fisico: siediti.

Sedersi come una montagna vuol dire anche prendere peso: essere pesante di presenza. I primi giorni, il giovane faceva fatica a rimanere così, immobile, le gambe incrociate, il bacino leggermente più alto delle ginocchia (è in tale posizione che aveva trovato maggiore stabilità). Una mattina sentì realmente che cosa voleva dire “meditare come una montagna”.

Era là con tutto il suo peso, immobile, silenzioso, sotto il sole, era una cosa sola con la montagna. La sua nozione del tempo era completamente cambiata. Le montagne hanno un altro tempo, un altro ritmo. Essere seduto come una montagna è avere l’eternità davanti a sé e l’atteggiamento giusto per colui che vuole entrare nella meditazione; sapere che c’è l’eternità dietro, dentro e davanti a sé.

Prima di costruire una chiesa, doveva essere “pietra”, e su questa pietra (questa imperturbabile solidità della roccia) la divinità poteva costruire la sua chiesa e del corpo dell’uomo fare il suo tempio.

Rimase così parecchie settimane; la cosa più dura era passare ore e ore “a far niente”. Bisognava imparare di nuovo ad “essere”, semplicemente, essere, senza scopo né motivo. Meditare come una montagna era la meditazione stessa dell’ Essere, “del semplice fatto di essere”, prima di ogni pensiero, di ogni piacere e di ogni dolore.

Padre Serafino lo andava a trovare ogni giorno, condividendo con lui i suoi pomodori e qualche oliva. Malgrado questo regime così frugale, il giovane sembrava aver preso peso. La sua andatura era più tranquilla. Sembrava che la montagna gli fosse entrata nella pelle. Sapeva prendere tempo, accogliere le stagioni, mantenersi tranquillo e silenzioso come una terra a volte arida e dura, ma anche, certe volte, come un versante di collina che attende il raccolto. Parimenti, meditare come una montagna aveva modificato il ritmo dei suoi pensieri. Aveva imparato a “vedere” senza giudicare, come se avesse dato a tutto ciò che cresce sulla montagna, il “diritto di esistere”.

Un giorno, alcuni pellegrini, impressionati dalla qualità della sua presenza, scambiandolo per un monaco gli chiesero una benedizione. Egli non rispose, imperturbabile come la pietra. Avendolo saputo, la sera stessa Padre Serafino cominciò a bastonarlo di santa ragione. Allora il giovane cominciò a lamentarsi.

“Ti credevo diventato stupido come i ciottoli della strada. La meditazione esicastica ha il radicamento, stabilità nella montagna, ma il suo fine non è di fare di te un ceppo morto bensì un uomo vivo”. Prese il giovane uomo per il braccio e lo condusse al fondo del giardino dove fra le erbe selvatiche si poteva vedere qualche fiore.

“Ora, non si tratta più di meditare come una montagna sterile, impara a meditare come un papavero, ma non dimenticare per questo la montagna”.

Fonte: http://pianetapsiche.it/

Ricordo ancora il film “Vacanze di Natale“, il primo, quello del 1983. Quella pellicola, come altre sulla commedia di costume, fù segno dei tempi ovvero mise in evidenza il fenomeno delle settimane bianche che scoppiò nei primi anni ’80. In quegli anni  prendemmo d’assalto (me compreso, da ragazzo) la montagna, trasformandola in un’estensione ludica della città, una sorta di luna-park di “periferia” dove si chiedeva divertimento a tutti i costi, tutto nel segno del consumismo. Anche la montagna era qualcosa da “consumare”.

Oggi quei tempi e anche un pò quella mentalità sembra lontana: maggiore sensibilità collettiva verso l’ambiente, aumento dei costi, cambiamento delle mode, altri genere di divertimento e di viaggi. Non che oggi non ci sia più gente che ami la settimana bianca e chieda perfino l’ eliski per raggiungere il manto nevoso più vergine, ma tutto sta contribuendo ad una certa crisi di questo settore, non ultimo il riscaldamento globale che innalza la quota della neve. E qui viene la nota dolente. Alcuni imprenditori locali pensano o gli piace credere che aumentando il numero degli impianti in quota serva a superare la crisi del settore…!

Anche al Terminillo, la montagna di casa mia, si vocifera che debbano essere realizzati nuovi impianti che portino la gente a sciare a quota 1820 (rif. Sebastiani), addirittura con un gatto delle nevi che trasporterebbe sessanta (60) persone a quella quota dove la neve resiste per più tempo. Semplice follìa o imprenditoria da strapazzo ? Non pensano forse lor signori che sarebbe il caso di cambiare rotta ? Che ne direbbero se i gitanti della montagna lasciassero gli sci da discesa e prendessero quelli da fondo o lo ciaspole ? E’ una missione impossibile ? Tutto sta nel crederci e nel muoversi in tal senso. Anche il CAI potrebbe fare molto, per esempio, andando nelle scuole ad educare i bambini ed insegnare loro che montagna non vuole dire solo “snowboard” e “carving“.

I futuri fruitori della montagna (turismo sostenibile) si educano fin da oggi. Per quelli già grandi c’è da sforzarsi affinché vengano attirati da iniziative atte a far conoscere (la ristrettezza di gusti è spesso dovuta ad ignoranza) forme alternative della pratica montana, forme che non richiedano un impatto forte come la costruzione di impianti che saranno comunque destinati, presto o tardi, all’abbandono.

Usiamo la montagna lasciandola il più possibile intatta: servirà per quelli che verranno dopo di noi.

Domenica scorsa (16 gennaio) mi sono recato al Terminillo con l’intenzione di scattare qualche foto per conto di un amico alpinista. Parto quindi dal rifugio Sebastiani alle 9.00 di una bellissima giornata dal tepore primaverile, inusuale per il mese di gennaio, e mi dirigo col cuore leggero verso la sella delle Scangive, traversando quindi lungo tutta la parete est del Terminillo. Ci sono parecchi gruppi provenienti dalle regione limitrofe, Marche ed Umbria in particolare. Infatti arrivato alla sella delle Scangive, punto di partenza per il canale Chiaretti-Pietrostefani, trovo un gruppone lungo tutta la sella che si prepara ad attaccare la via suddiviso in diverse cordate. La giornata è ideale sia per scalare che per scattare foto. Così mi sposto lungo la sella e percorro la crestina che porta in cima al piccolo colle delle Scangive che dà dirimpetto alla Chiaretti. Da quel balcone naturale (carino tra l’altro per la visuale che offre)  scatto numerosi fotogrammi alla via stessa, ma anche dal severo scudo roccioso dello spigolo nord. Vedo altre persone che traversano sotto lo spigolo per risalirlo “a mezzaluna” dalla parte opposta dove si trova il canale “primo maggio”.

L’ amico mi aveva richiesto una ripresa dalla cresta dei Sassetelli, così senza indulgere troppo, scendo anche io dalla selletta e compio il traverso sotto lo spigolo nord. L’ambiente è affascinante sia per la solitudine (la maggior parte delle cordate è stata assorbita dalla Chiaretti e sono pochi quelli diretti al “primo maggio”) sia per la zona d’ombra tipica dei versanti esposti a nord che fanno apparire le cose più statiche e fredde alla nostra mente. Nel traverso c’è un breve passaggio esposto, non difficile ma che richiede concentrazione e senso di equilibrio, superato il quale si risale verso la cresta dei Sassetelli. A questo punto decido però che non vale la pena risalire i Sassetelli per uno scatto e poi tornare indietro, così opto per scalare il “primo maggio”.

Tutto il canale è in ombra, tranne l’uscita in cresta. Mi accodo ad altre cordate che procedono più lentamente lungo il canale e dopo circa tre-quarti della sua lunghezza ci si ferma tutti sotto un muretto: è un breve passaggio di misto di circa 2 metri ma inclinato a 75 gradi. Il passaggio non è banalissimo perché lo strato di neve che ricopre la roccia è sottile mentre la neve alla base è ormai degradata dai ramponi delle cordate precedenti. Occorre piantare le becche delle piccozze dove la neve è più consistente e ghiacciata, ed essere veloci con i piedi. Quindi con un movimento di due-tre passi, spaccando bene le gambe per aumentare la base d’appoggio ne vengo fuori bene e velocemente. Sono ormai in una zona di pendìo più favorevole, quasi all’uscita ma manca un ultimo muro (sei-sette metri a 60 gradi circa) che oltre ad essere un pò esposto, presenta poca neve, ciuffi d’erba e roccette affioranti di cui si ignora la stabilità…

Anche questo passaggio non è difficile ma occorre fare molta attenzione, vista l’esposizione, insomma non bisogna assolutamente scivolare in quel punto. Ultima fatica e poi sono sulla piatta cresta nord, che conduce poco dopo in vetta.

Il tempo delle foto di rito e di mangiare e bere qualcosa che la consapevolezza del “lavoro” non ancora completo mi impone di scendere subito per il canale Centrale. Devo infatti risalire il versante opposto al Terminillo, quello che dà sulla parte Nord dell’ Elefante per fare le ultime riprese. Alle 13,45 sono al Sebastiani, seduto per pranzare con polenta e carne grigliata.

Riporto il breve trattato storico dal sito della sezione CAI di Desio, che descrive in modo esemplare la figura alpinistica di questo futuro Papa Pio XI. Ben pochi sanno, infatti, che la via normale italiana al Monte Bianco è stata aperta proprio da Achille Ratti nel 1890.

 Achille Ratti al centro della foto

 

Cito dal sito: 

“L’occasione offerta dalle celebrazioni per il 150° anniversario della nascita di Achille Ratti, S.S.PIO XI°, permette di ricordare – almeno nei momenti più significativi – la sua attività alpinistica, spesso un po’ trascurata e non adeguatamente valorizzata.

Questo aspetto, per un personaggio che sarebbe entrato nella storia come Pontefice, può sembrare a prima vista riduttivo e forse anche di non grande importanza; in realtà, la passione, la conoscenza della montagna e la pratica dell’alpinismo sono caratteristiche, sicuramente particolari ma altrettanto significative, della poliedrica personalità di Achille Ratti.

La scelta dell’alpinismo come nobilitazione del tempo libero, è in sintonia con le sue doti di uomo di vasta cultura e di azione ad un tempo, che ricercava, nel percorrere la montagna, un giusto equilibrio tra conoscenza e scoperta, non solo di nuovi orizzonti geografici, ma anche di se stesso, trovando nel mondo alpino e nella pratica dell’alpinismo nuovi stimoli di meditazione e di crescita spirituale.

Anche se l’amore per la montagna è presente nella storia personale di altri Pontefici del nostro tempo – per inciso si possono citare Paolo VI°, certamente non un alpinista attivo, ma che in varie occasioni amava ricordare i suoi soggiorni estivi in Val Camonica e la sua considerazione dell’alpinismo, come risulta dai discorsi alle guide alpine (1966) ed ai dirigenti del Club Alpino Italiano (1973), e soprattutto Giovanni Paolo II° del quale tutti ancora rammentiamo le discese in sci sulle nevi dell’Adamello e le sue escursioni ai piedi del Monte Bianco ed in Cadore – solo Pio XI° occupa, a pieno titolo, un posto non secondario nella storia dell’alpinismo, soprattutto italiano.

Apprestiamoci, dunque – senza la pretesa di essere esaustivi – a ripercorrere le tappe più significative della “carriera” in montagna di Achille Ratti, di colui che sarebbe stato ricordato come il “Papa alpinista”. L’attività alpinistica di Achille Ratti si svolse nell’arco di circa trent’anni (un tempo non breve, tenuto conto dei suoi incarichi ed impegni sempre più importanti e gravosi); tralasciando le prime escursioni compiute da ragazzo, durante le vacanze estive sulle montagne che circondano Asso in compagnia dello zio don Damiano Ratti, le prime vere esperienze alpinistiche iniziano nel 1885 con la salita alla Cima di Jazzi e al Colle del Turlo e terminano, di fatto, nell’ottobre del 1913 con la salita alla Grigna Settentrionale, dalla allora capanna Releccio lungo la via del Canalone, con una permanenza di quattro giorni al rifugio della vetta e successiva discesa ad Esino.

Riduttivo e forse noioso sarebbe fare un arido elenco delle salite compiute dal futuro Pontefice; più interessante appare, invece, ricordare, tra le tante, le imprese più significative di Achille Ratti, nella sua non breve e soprattutto non banale “carriera alpinistica”.

Solo per dare un’idea dell’intensa attività di don Ratti in montagna, si segnalano alcune delle salite da lui compiute:

  • 1886: Legnone e Grigna Settentrionale;
  • 1887: Piccolo Cervino ed Eggishorn;
  • 1888: Gran Paradiso, Levanne e Presolana;
  • 1892: Monviso ed Argentera;
  • 1894: Col d’Olen e Punta Gnifetti;
  • 1895: Pizzo Bianco;
  • 1904: Marmolada.

Gli anni d’oro furono però il 1889 e il 1890, durante i quali il futuro Pontefice compì le sue imprese più importanti. Ovviamente, per un frequentatore della montagna era, per così dire naturale, anche a quei tempi, associarsi al Club Alpino Italiano, fondato nel 1863; infatti, Achille Ratti divenne socio della Sezione di Milano nel 1888 (il suo amico fraterno e fedele compagno di cordata don Grasselli lo seguì l’anno successivo). Della Sezione di Milano fu anche membro del consiglio direttivo (allora i membri del consiglio di chiamavano “direttori”), nel 1890. (1)

Anche la Sezione di Desio onorò l’allora Cardinale Ratti – a quell’epoca Nunzio Apostolico in Polonia e Arcivescovo di Lepanto – nominandolo socio onorario.

Correva l’anno 1921 (la Sezione di Desio era stata costituita nell’ottobre del 1920) e il futuro Pontefice ringraziò con una lettera autografa, conservata in sede, indirizzata all’allora Presidente, Carlo Bosio. E’ interessante ricordare anche che il prestigioso ed elitario Alpine Club britannico aveva incluso (1922) nella rosa dei suoi soci onorari Pio XI° il quale, pur declinando l’offerta, assicurò con una lettera dell’allora Cardinale Segretario di Stato Gasparri, il ringraziamento per un così “delicato e cortese pensiero” che aveva suscitato nel Pontefice il ricordo dei “bei tempi passati”. (2)

La figura di Achille Ratti, sacerdote e alpinista, non è però un caso isolato; al contrario, si innesta in quel filone della storia dell’alpinismo e dell’esplorazione delle montagne che vide, spesso come protagonisti, esponenti del clero colto ed illuminato. Infatti, in molti angoli dell’arco alpino, dal Monte Rosa al Cervino, fino alla Marmolada ed alle Dolomiti, l’esplorazione delle vette vide, in prima fila, religiosi di montagna che salgono numerose cime (a volte in prima ascensione), in un periodo di tempo che – approssimativamente – si colloca tra la fine del 1700 e il 1880 circa.

All’epoca nacque uno stretto rapporto tra clero, esplorazione delle montagne ed alpinismo vero e proprio; a tal proposito è importante tener conto del ruolo che i sacerdoti (solitamente i parroci) rivestivano nella società alpina di quei tempi. Nelle vallate delle Alpi le strutture ricettive, soprattutto nella prima metà dell’800, erano scarse ed inadeguate; per questa ragione, frequentemente, i sacerdoti ospitavano i primi alpinisti, fornendo loro anche preziosi consigli ed indicazioni di mete ed itinerari, creandosi in tal modo rapporti di solidarietà ed amicizia.(3)

Tra i religiosi che hanno contribuito – praticamente su tutto l’arco alpino – a gettare le basi della nascente attività alpinistica, si possono ricordare: l’abate Gorret, che fece parte della prima cordata che salì il Cervino dal versante italiano, don Gnifetti, parroco di Alagna che molto operò nel gruppo del Monte Rosa e al quale è dedicata la punta Gnifetti, l’abate Chanoux, botanico, l’abate Henry, alpinista e scrittore, autore di una celebre guida della Valle d’Aosta e l’abate Stoppani, geologo e primo Presidente della Sezione di Milano del C.A.I., solo per citarne alcuni.

Riprendiamo il filo del discorso e veniamo al personaggio, don Achille Ratti alpinista.

MONTE ROSA

Come già detto, gli anni “speciali” della carriera alpinistica di don Ratti furono il 1889 e il 1890. La prima e certamente più importante impresa del futuro Pontefice fu quella che compì sulla parete est del Monte Rosa, lungo la via aperta nel 1872 dai fratelli Plendebury e da Taylor, inglesi, con le guide F.Imseng, G.Oberto di Macugnaga e G.Spechtenhauser di Fend, nell’Oeztal.

Per meglio inquadrare l’impresa del futuro Papa sul Monte Rosa, sono necessarie alcune brevi considerazioni sulla parete. Il grandioso versante est del Monte Rosa, vero e proprio prototipo alpino della grande parete glaciale, unico in tutte le Alpi per dimensioni e dislivello, offriva uno spettacolo “impressionante che merita da solo un viaggio dall’Inghilterra”(4), e rappresentava allora certamente un impegno fisico e tecnico di grande rilevanza, tenuto conto delle attrezzature e dell’abbigliamento del tempo e delle masse glaciali molto più imponenti di quelle attuali, senza dimenticare l’approccio mentale che era necessario (e in parte lo è ancora) per affrontare una parete di quelle dimensioni. Tra l’altro il medesimo versante, nel 1881, era stato teatro della prima grande tragedia dell’alpinismo italiano con la cordata di D. Marinelli e delle sue guide travolta da una valanga nel canalone che oggi porta il suo nome, così come il rifugio (del C.A.I.Milano) posto lungo l’itinerario di avvicinamento alla parete.

Questa tragedia, anche per la notorietà del Marinelli, scosse moltissimo l’opinione pubblica tanto è vero che vi fu anche un tentativo di vietare l’attività alpinistica, con tanto di interrogazione parlamentare.(5)

L’evento del 1881 non scoraggiò l’animo di don Ratti che con l’amico don Grasselli e le fedeli guide G.Gadin e A.Proment di Courmayeur, non solo salì la parete, ma si aggiudicò anche la prima traversata del Monte Rosa da Macugnaga a Zermatt, per il colle Zumstein.

Ciò lo si ricava anche dalla lettura delle relazioni che lo stesso don Ratti scrisse per le pubblicazioni ufficiali del Club Alpino, successivamente raccolte nel volume celebrativo del cinquatenario di fondazione della Sezione di Milano del C.A.I.; la pubblicazione vide la luce nel 1923 con un’edizione “ad personam”di 35 esemplari, una numerata per amatori, oltre alla normale tiratura (6). Degli scritti alpinistici di don Ratti furono pubblicate, sempre negli anni ’20, le edizioni francese, inglese, spagnola e tedesca (7).

Proprio dalla lettura della relazione della salita alla parete est del Monte Rosa si comprende come l’alpinista Achille Ratti poco lasciava al caso; infatti, da valente storico ed archivista qual era (fu, come tutti sanno, Prefetto alla Biblioteca Ambrosiana e successivamente alla Vaticana), era solito documentarsi molto prima di affrontare un’ascensione, leggendo le relazioni di coloro che lo avevano preceduto; ma, soprattutto, era dotato – per così dire – di uno spiccato senso della montagna, come appare da questo passo tratto dalla relazione della salita: “Pel nostro uso e consumo non era neppur uopo di tante esperienze precedenti per stabilire che avevamo soprattutto bisogno di trovare il ghiaccio compatto, il tempo bello e freddo. La prima condizione ci doveva assicurare degli imbarazzi creati dai crepacci, la seconda dal pericolo delle valanghe; pienamente fortunati ove trovassimo di molta neve fresca o gelo sulle rocce della vetta. Sono queste, mi affretto a dirlo, le condizioni che saranno sempre indispensabilmente necessarie a chi voglia ritentare e compiere questa ascensione, non dico senza difficoltà, che non è possibile, ma senza pericoli”.(8).

Dunque, il futuro Papa sapeva bene quello che faceva.

Prima di tutto si accompagnava a due valentissime guide, i citati Gadin e Proment, oltre al suo abituale compagno di cordata ed altrettanto valido alpinista, don Grasselli; in secondo luogo la cordata non fu audace, né temeraria, ma cosciente dei propri mezzi e capacità, perché come lo stesso don Ratti scrive: “l’idea di tentare, come suol dirsi, un tiro da disperati neppur ci passava per il capo” perché, continua lo scritto:” l’alpinismo vero non è già cosa da scavezzacolli ma, al contrario, è solo questione di prudenza e di un poco di coraggio, di forza e di costanza”. (9).

A dire la verità, non tutti erano della stessa opinione come si ricava dal diario di Caterina Creda di Macugnaga, che, il 31 luglio 1889, scriveva: “Oggi due preti passano il Rosa con scandalo di tutti”.(9).

Ma veniamo alla salita vera e propria.

Il gruppo partì da Macugnaga il giorno 29 luglio 1889 per giungere alla capanna Marinelli, sopra ricordata, circa alle sette di sera. Verso la una di notte escono dal rifugio e la salita ha inizio; la partenza notturna permetteva di attraversare il canalone Marinelli con maggiore sicurezza.

La cordata era così composta: in testa Giuseppe Gadin, secondo don Ratti indi Alessio Proment e ultimo don Grasselli. Dopo aver attraversato, come detto, il canalone Marinelli, raggiungono le prime rocce dove sostano brevemente. La salita prosegue senza intoppi, anche se piuttosto lenta per la molta neve, per circa dodici ore; verso l’una di pomeriggio la cordata si concede un po’ di riposo e di ristoro con del cioccolato. Riprendono a salire senza particolari problemi, a parte la perdita della piccozza da parte di don Grasselli, cosa peraltro non di poco conto, e alle ore 19,30 circa, la cordata raggiunge la punta est della cima Dufour; era il 30 luglio 1889 e l’aneroide che don Ratti aveva con se segnava l’altezza di 4600 m.

Si è trattato, come è facile intuire, di un’impresa tutt’altro che modesta per l’epoca; la parete è poderosa ed imponente di circa 2500 metri di dislivello e con rilevanti pericoli oggettivi data l’esposizione ad est.

Di tutto ciò don Ratti era certamente consapevole tanto è vero, e cito ancora dai suoi scritti: “E’ chiaro che l’ascensione del Monte Rosa per il versante est è ben più che un poco di alpinismo, e conveniamo pienamente con quanti ci precedettero che, anche nelle migliori circostanze, non è questa un’ascensione da permettere il minimo risparmio di energia e di attenzione”.(11). Riprendiamo la narrazione. Data l’ora, la discesa era impensabile e la cordata si prepara al bivacco notturno. L’esperienza vissuta in quei momenti merita di essere ricordata.

Scrive don Ratti:“Il freddo era intenso; senza poterne con esattezza determinare il grado, ricorderò come il nostro caffè fosse perfettamente congelato, e vino e uova gli somigliassero già tanto da non essere rispettivamente né bevibile né mangiabili”. E ancora: “In condizioni somiglianti di luogo e temperatura sarebbe stata somma imprudenza lasciarsi vincere dal sonno. Ma chi avrebbe potuto dormire con quella purissima aria……. A quell’altezza, nel centro di quel grandiosissimo fra i più grandiosi teatri alpini, in quell’atmosfera tutta pura e trasparente, sotto quel cielo del più cupo zaffiro, illuminato da un filo di luna e, fin dove l’occhio giungeva, tutto scintillante di stelle, in quel silenzio…….

Ci sentivamo dinanzi ad una per noi nuova, imponentissima rivelazione dell’onnipotenza e maestà di Dio”. (12).

Una prosa un po’ datata, certo, ma efficace e suggestiva; chi ha provato un bivacco in montagna riconosce le sensazioni descritte.

La mattina dopo (31 luglio), all’alba, salgono la cima più alta della Dufour (4695 m).

La cordata inizia quindi la lunghissima discesa verso Zermatt ma, alle ultime rocce sotto il Grenzgipfel, viene presa la decisione di non seguire l’itinerario comune di discesa, ma di dirigersi verso il colle Zumstein posto a 4450 m.

In tal modo viene compiuta la prima traversata del colle Zumstein per una cordata proveniente da . Macugnaga. (13).

La discesa verso Zermatt è veramente interminabile tanto da imporre un nuovo bivacco nelle vicinanze del rifugio del Riffel anche perché la guida Gadin, semi accecato dal riverbero del sole, non aveva trovato il sentiero sulla morena che avrebbe condotto la cordata finalmente a riposarsi in quel di Zermatt dove arrivano con un giorno di ritardo rispetto al previsto.

CERVINO

Se la salita lungo la parete est del Monte Rosa è, come detto, l’impresa alpinisticamente più significativa e tecnicamente più impegnativa di Achille Ratti, la carriera alpinistica del futuro Pontefice continua alla ricerca di nuove mete.

Infatti, il 1° agosto 1889, don Ratti, don Grasselli e le loro guide sono a Zermatt, località dove la presenza ed il richiamo del Cervino, “il più nobile scoglio d’Europa” secondo la famosa definizione di John Ruskin, non lascia certo indifferente don Ratti ed i suoi compagni.

Il gruppo si riposa qualche giorno, senza peraltro rinunciare ad una gita di ricognizione alle falde, appunto, del Cervino e, il 6 agosto, dopo un tentativo del giorno prima fallito a causa del cattivo tempo, parte alla volta della montagna.

Della comitiva fanno parte don Ratti, le guide Gadin e Proment ai quali si era aggiunto Francesco Bich, guida di Valtournanche; il solo don Grasselli non se l’era sentita di affrontare la scalata, forse anche per la stanchezza accumulata nei giorni precedenti (non si deve dimenticare che don Grasselli era maggiore di dieci anni di don Ratti).

Il programma risulta però, a dir poco, sorprendente.

Ancora una volta occorre rifarsi agli scritti alpinistici dove si legge: “fu stabilito che verso la mezzanotte saremmo ripartiti per il Cervino andando direttamente in vetta, senza pernottare alla capanna. Era un esperimento di qualche interesse: e, se non altro, avremmo eseguito l’ascensione a modo nostro e fuor di zibaldone”.(14).

Dunque, salita diretta al Cervino da Zermatt; un exploit fisico (e, in parte, anche tecnico) di tutto rispetto, paragonabile – fatte le debite proporzioni – alle imprese dei moderni sky runner che però non usano i pesanti scarponi chiodati e le lunghe piccozze allora in voga, senza dimenticare l’impresa che, solo pochi giorni prima, era stata portata a termine sul Monte Rosa.

Partiti a mezzanotte, alle quattro sono alla capanna dell’Hornli dove sostano un poco per riprendere la salita: “di roccia in roccia, di cresta in cresta, di corda in corda”.(15).

La salita prosegue senza intoppi e la vetta fu raggiunta dopo circa sedici ore di scalata; anche in questo caso un esempio di tenacia e di preparazione fisica e mentale invidiabili.

Il momento dell’arrivo in vetta è così ricordato negli scritti: “Finalmente verso le quattro o le quattro e mezza pomeridiane eravamo sulla cima. Il sole versava declinando i suoi ultimi splendori sul grandioso, indescrivibile panorama: non dimenticherò più la spaventevole bellezza degli abissi che si sprofondano a picco sotto la vetta dalla parte di Valtournanche.

Ma intanto il sole volgeva decisamente al tramonto, ed una brezza freddissima ci fè pensare alla discesa”.(16).

E così, dopo il Monte Rosa anche il Cervino era salito.

Data l’ora tarda, la cordata si preparò anche in questo caso al bivacco, poco sotto la cosiddetta spalla del Cervino.

Il momento è così descritto nella relazione della salita: “Il tempo era sempre magnifico e ci rassegnammo a passare la notte là dove eravamo, senza pena e, oso dire, con largo compenso. La configurazione singolare del Cervino, l’isolamento perfetto in cui si slancia quel suo gigantesco aereo picco, la varia fisionomia del sottostante panorama mi fecero sembrare quella notte, per certi rispetti, ancora più stupenda di quella passata una settimana prima sulla vetta del Monte Rosa”.(17).

La mattina seguente, giunti alla capanna dell’Hornli, hanno la gradita sorpresa di incontrare don Grasselli che, da solo, era andato loro incontro.

Il 9 agosto il gruppo attraversava il colle del Teodulo per scendere a Valtournanche e, il 10 agosto, i due sacerdoti sono di nuovo a Milano.

Una campagna alpinistica breve ma assai intensa e di tutto rispetto quella dell’estate del 1889.

MONTE BIANCO

Dopo la felice stagione dell’anno 1889, l’attività alpinistica del futuro Pio XI° era tutt’altro che conclusa; l’interesse di Achille Ratti si rivolse al Monte Bianco.

La sera del 27 luglio 1890, don Ratti e don Grasselli sono a Courmayeur per tentare di ripetere la via percorsa dalla cordata Martelli nei giorni 16 e 17 agosto 1889, con l’intenzione di percorrere quell’itinerario in discesa. A Courmayeur incontrano le fidate guide Gadin e Proment che prospettano però ai due sacerdoti una diversa possibilità che avrebbe permesso alla cordata di seguire un itinerario in parte nuovo.

Oltre un secolo dopo la prima ascensione al Monte Bianco dal versante francese del 1786, il problema non era tanto quello di trovare un itinerario da Courmayeur, quanto quello di scoprire una via tutta italiana.

Dopo due salite di allenamento al Crammont il 28 luglio ed al colle del Gigante il giorno successivo, il 30 luglio 1890, intorno alle otto del mattino, la cordata – alla quale si era aggiunto don Giovanni Bonin, vicario di Prè St.Didier – partì alla volta del rifugio Sella, ancora oggi uno dei rifugi più isolati del massiccio, dove giungono nel pomeriggio.

La mattina dopo, 31 luglio, con un tempo splendido, alle ore quattro antimeridiane, la cordata si mette in marcia e circa a mezzogiorno giungono in vetta al Monte Bianco.

In vetta, come ricorda don Ratti negli scritti, brindano: “con dell’Asti spumante, lassù veramente impagabile, (che) fece egregiamente le veci dello sciampagna”.(18).

Al momento del ritorno, una fitta nebbia sconsigliò di intraprendere la discesa verso Courmayeur lungo ghiacciai molto crepacciati; come si può notare, in questa come in altre occasioni, la prudenza fu uno dei punti di riferimento dell’andare in montagna di don Ratti e dei suoi compagni, e proprio la prudenza fece si che la discesa si svolgesse lungo il meno impegnativo versante francese.

Questa circostanza fece si che don Ratti ed i suoi compagni pernottassero per primi nella nuovissima capanna Vallot che proprio in quei giorni stava per essere ultimata in attesa dell’inaugurazione; da un certo punto di vista una sorta di “prima” anche questa.

La mattina del 1° agosto 1890 lasciano il rifugio Vallot, oltrepassano il Dome du Gouter e scendono fino al colle di Bionassay. Da questo punto, invece di seguire l’itinerario lungo i contrafforti delle Aiguilles Grises, tennero la sinistra e – cito ancora dagli scritti – “prendemmo a discendere dal suo bel principio il ghiacciaio del Dome, quello cioè che si avalla tra il Rocher du Mont Blanc a sinistra e l’Aiguille Grise a destra”(19); scavalcato poi lo sperone che sostiene la vetta delle Aiguilles Grises, continuano lungo il ghiacciaio del Miage e giungono a Courmayeur verso le 17.

Come si vede, il futuro Papa ha lasciato una traccia duratura anche nel massiccio del Monte Bianco aprendo, in discesa, con la variante descritta, quella che era destinata a diventare col tempo la via normale di salita dal versante italiano, lungo il ramo occidentale del ghiacciaio del Dome.(20).

Con la salita al Monte Bianco si può dire concluso il momento magico di don Ratti, con un trittico di salite, Monte Rosa, Cervino e Monte Bianco, assai significativo e, per l’epoca, di alto livello.

VESUVIO

Se quelle appena ricordate rappresentano le punte di diamante dell’attività alpinistica di colui che sarebbe diventato Pio XI°, sembra opportuno, a questo punto, fare un cenno alla salita al Vesuvio compiuta da don Ratti nella notte tra il 31 dicembre 1899 e il 1° gennaio 1900, in compagnia di alcuni soci della Sezione di Napoli del Club Alpino Italiano.

La salita al Vesuvio non si può certo considerare una salita impegnativa, forse neppure a stretto rigore alpinistica; essa, però, deve ritenersi, da un lato singolare per il luogo, ma soprattutto significativa, quasi profetica, perché il futuro Pontefice vide sorgere l’alba del nuovo secolo dall’alto di una montagna, luogo che si può considerare simbolico dell’avventura umana e spirituale di don Ratti.

La relazione che narra il soggiorno napoletano oltre che la salita al Vesuvio, è di piacevole e gradevole lettura, soprattutto quando indugia su alcuni particolari come la sosta a casa Césaro, dove si svolse la cena ed il tradizionale brindisi della mezzanotte. Dopo il brindisi al nuovo anno, il gruppo partì per raggiungere, poco prima dell’alba, l’orlo del cratere. Finalmente giunge l’alba e: “un’infinita bianchezza si diffondeva pel cielo sereno e prendeva aspetto di mobile argento, riflesso nello specchio di mare increspato dalla brezza mattutina”.(21).

Sono momenti di grande emozione che fanno tornare alla memoria di Achille Ratti, sensazioni altre volte vissute in montagna. “Paragonabile a quello che laggiù mi fu concesso, non trovo nella mia vita che un solo istante, quando nella suprema vetta del Monte Rosa, guadagnata la sera innanzi salendo da Macugnaga, mi era dato di contemplare a tutto mio agio lo spuntare di un giorno bellissimo”.(22).

Il ricordo, forse la nostalgia del Monte Rosa, appare ancora nelle parole di don Ratti quasi a chiudere idealmente il cerchio di una stagione alpinistica irripetibile, prima di affrontare ben altre difficoltà e salire vette ben più alte. L’attività alpinistica di don Ratti comunque continuò, come detto, ancora per poco più di dieci anni, fino al 1913, anche se con sempre minore intensità.

Il frequente utilizzo di brani tratti dagli scritti di montagna di Achille Ratti, offre lo spunto per alcune brevi considerazioni sulla sua prosa alpinistica che, ovviamente, deve essere rapportata al modo di scrivere in voga, tra le persone colte, alla fine dell’ottocento.

La prima considerazione da fare è che Achille Ratti, nella narrazione delle sue salite, cerca di limitare le annotazioni di carattere puramente tecnico. Nella sua prosa, invece, sembra prevalere il tentativo, spesso riuscito, di far rivivere al lettore le sensazioni, le emozioni ed i pensieri di chi frequenta la montagna non solo intesa come puro esercizio fisico, ma come luogo nel quale lo spirito e la mente trovano liberamente la possibilità di assaporare, fin nel profondo, momenti unici ed irripetibili; le descrizioni di albe e tramonti ne sono un esempio.

In altre occasioni, nel raccontare singoli episodi di salita, la prosa diretta ed incisiva di Achille Ratti permette al lettore di immedesimarsi nel momento dell’azione.

Un esempio, al riguardo, sembra essere significativo; durante la salita della parete est del Monte Rosa, la guida Gadin, che è in testa alla cordata, si attarda nel superamento di un passaggio particolarmente delicato. Achille Ratti che lo segue ed è fermo in attesa di passare a sua volta, chiede con qualche insistenza il perché della sosta: la guida Gadin, che nei momenti topici si esprime in francese, risponde alla domanda con calma, ma fermamente, con queste parole riportate testualmente negli scritti alpinistici:“Monsieur, je vous en prie, ne parlez pas, cela me dérange l’èsprit”.(23).

In poche parole, come si può notare, è ben descritta la difficoltà del momento e si esprime la concentrazione dei protagonisti. Questi pochi cenni sembrano sufficienti per inquadrare la capacità di Achille Ratti di trasportare sulla pagina scritta, con efficacia ma anche con passione e sentimento, le sensazioni che lui stesso ha provato durante la sua lunga attività in montagna, e di coinvolgere il lettore rendendolo quasi partecipe degli avvenimenti descritti.

Achille Ratti, anche da Pontefice, non dimenticò mai la montagna ed i suoi uomini.

Ne è esempio l’udienza che Pio XI° tenne a Roma il 16 aprile 1934 alla presenza di oltre duecento guide e circa trentamila alpini.

Le parole che in quell’occasione il Papa pronunziò sapevano ben poco di circostanza; furono, invece, parole di umana amicizia e di condivisione della stessa comune passione; si dice che l’udienza si protrasse ben oltre i tempi stabiliti, cosa assai insolita per un Pontefice che aveva fama di essere di elvetica precisione.

Ancora più significative e solenni furono le parole che si trovano nella lettera apostolica del 20 agosto 1923, indirizzata al

Vescovo di Annecy in onore di San Bernardo da Mentone, proclamato in quell’occasione, patrono degli alpinisti.

La lettera, anch’essa pubblicata nei testi latino ed italiano, nel volume degli scritti più volte citato, contiene una definizione di alpinismo che, al di là della prosa che risente ovviamente dello stile dell’epoca e della solennità del momento, merita di essere riletta anche oggi.

“Per vero tra tutti gli esercizi di onesto diporto nessuno più di questo – quando si schivi la temerità può dirsi giovevole alla sanità dell’anima nonché del corpo. Mentre, col duro affaticarsi e sforzarsi per ascendere dove l’aria è più sottile e più pura, si rinnovano e si rinvigoriscono le forze, avviene pure che e coll’affrontare difficoltà di ogni specie si divenga più forti pei doveri anche più ardui della vita, e col contemplare la immensità e bellezza degli spettacoli, che dalle sublimi vette delle Alpi ci si aprono sotto lo sguardo, l’anima si elevi facilmente a Dio, autore e signore della natura”.(24).

Parole profetiche; quasi un presagio delle difficoltà e delle prove che Pio XI° avrebbe dovuto affrontare durante il suo pontificato.

Prima di concludere questo necessariamente ridotto spaccato dell’attività in montagna che è anche specchio della forte personalità di uomo e di alpinista di colui che sarebbe diventato Pontefice, ancora due brevi considerazioni.

E’ fin troppo evidente che un personaggio come Pio XI° non poteva essere ricordato nel variegato mondo della montagna e dell’alpinismo, solo per la sua attività, peraltro tutt’altro che modesta.

E’ significativo il fatto che due vette, una sulle Alpi e l’altra sugli Appennini, sono intitolate al Papa alpinista. La prima si trova in Valle d’Aosta e fu scalata, in solitaria, il 4 giugno 1922 dall’Abate Henry di Valpelline – la vetta si trova appunto in quella valle – che battezzò una punta ancora innominata con il nome di Punta Ratti, in onore del Pontefice da poco eletto; la seconda è il picco Ratti, massima elevazione della cresta NNE del Pizzo d’Intermesoli (gruppo del Gran Sasso), salita per la prima volta il 25 settembre 1929 da E.Sivitilli.

L’altra questione riguarda , invece, più direttamente la Sezione di Desio del Club Alpino Italiano.

Nel settembre del 1921, pochi mesi prima della sua elezione a Pontefice, l’allora Cardinale Ratti ebbe un cordiale colloquio con i dirigenti della Sezione, in quella occasione il futuro Papa spronò la neonata Sezione di cui – come detto – era socio onorario, ad incrementare l’attività alpinistica spingendosi anche al di fuori della cerchia di montagne di solito frequentate.

Forte di un simile incoraggiamento, la Sezione di Desio si diede da fare e non molto tempo dopo, la dirigenza dava incarico ad una piccola delegazione di soci, di visitare un rifugio ex austro-tedesco, posto nelle Alpi Venoste, alla testata della Vallelunga, nel gruppo della Palla Bianca.

Di ritorno dalla prima visita ufficiale, la delegazione riferì di un “piccolo rifugio di alta montagna, degno di essere intitolato al nome augusto di Sua Santità”.

Il 15 agosto 1926, veniva così intitolato a Pio XI° il rifugio alla Palla Bianca e da allora ne porta il nome; il rifugio venne successivamente ampliato fino alla consistenza attuale.

E’ la casa del Papa alpinista, simbolo della sua passione per la montagna.”

Segnalo inoltre un paio di biografia, una italiana ed una estera:

Achille Ratti - biografia Achille Ratti - biografia 2

Riferimenti: http://www.caidesio.net/storia/achillerattielamontagna.html

E’ di pochi giorni fa la nuova via invernale aperta da Daniele Nardi e soci sul versante nord del Pizzo Deta (monti Ernici). Un bella via, soprattutto fatta di molta roccia, visto che il versante nord è costellato di pilastri nudi di calcare che potrebbero interessare anche qualche chiodatore.

Pizzo Deta nord

Pizzo Deta nord - nuova via invernale Nardi

Pizzo Deta nord - primo salto

Pizzo Deta nord - primo salto

Non volevo però parlare semplicemente della relazione, che rimando alle foto e al sito di Mountain Freedom (sito degli apritori), ma del fatto che in Appennino possano ancora esistere angoli relativamente vergini per gli alpinisti invernali, come per esempio la parete terminale di Punta Macerola sulla parete nord del Sirente.

Sirente - parete terminale Punta Macerola

Sirente - parete terminale Punta Macerola (arch. Iurisci)

Il misto appenninico, quindi, riserva ancora piacevoli sorprese e, c’è da aggiungere, anche abbastanza impegnative. Il motivo è dovuto anche all’ambiente isolato che richiede parecchie ore di avvicinamento, cosa che scoraggia i più, quelli che praticano in modo amatoriale questa disciplina e che non possono dedicarle più di uno-due giorni a settimana (e neanche tutte le settimane, sia per condizioni meteo sia per altri impegni personali). Quindi, alcune pareti o parti di esse, rimangono tutt’oggi “inviolate”, comunque frequentate pochissimo.

La sensazione personale che ne ricavo è un’ idea romantica di fondo che mi fa pensare all’ inesplorato dei primi tempi, all’ alpinismo degli albori, alla condizione di ambiente vergine, incontaminato. Insomma, mi piace pensare che in un territorio fortemente antropizzato come quello del nostro Paese, ci siano ancora angoli “segreti”, lontani dal rumore della massa, anche quella specificatamente alpinistico-escursionistica. 

Foto: Cristiano Iurisci, Stefano Milani

Con questo nuovo spazio. La miglior piattaforma di blog, adesso anche al mio servizio. Live spaces non mi soddisfaceva più, specialmente per la gestione immagini, per la navigazione macchinosa e per il fatto che viene bloccato dal proxy del posto di lavoro. Speriamo che questa nuova avventura con wordpress mi dia quello che cerco: solo poter pubblicare quelle poche cose che scrivo e qualche immagine da linkare agli amici.

 

Solo poche righe per segnalare, anzi consigliare vivamente, la visione di quest’ opera che ha richiesto ben otto anni di lavoro al documentarista Quilici. Egli descrive tutto l’arco alpino sotto ogni aspetto (geografico/geologico, etnico, culturale, alpinistico), partendo dalla zona orientale alla occidentale, seguendo idealmente il percorso del sole dato che, come egli stesso dice nel film, le nostre Alpi sono quelle che hanno il versante interamente esposto al sole. Le Alpi, il cui nome deriva da “albus” (“bianco”) per via delle nevi perenni che le incappucciano dai tremila metri in su, sono montagne che non dividono da uniscono; punto di contatto tra i popoli mediterranei e quelli mitteleuropei, rappresentano luogo di fusione di diverse culture, popoli, lingue. Una ricchezza nella varietà, anche geomorfologia: rocce sedimentarie come calcari e dolomie si trovano affianco a rocce intrusive e metamorfiche come il granito e lo gneiss.

 

Un film da vedere e rivedere nella propria cineteca personale.